Produttori di cibo popolare e costruttori di un bene immateriale. In questa formula si può sintetizzare la storia dei pizzaioli napoletani, bandiera planetaria dell’Italia da mangiare. È dal Settecento che questo capolavoro della gastronomia e dell’arte del vivere popolare, ha iniziato la sua irresistibile ascesa dai vicoli napoletani ai quattro angoli del globo fino a diventare un emblema del Belpaese e in particolare di quel doppio concentrato d’italianità che è Napoli.

In realtà l’arte dei pizzaioli è antichissima e profondamente legata alla maniera napoletana di essere comunità. Secondo alcuni storici dell’alimentazione deriva addirittura dalla preparazione delle mensae, le schiacciate di grano cotte al forno che gli antichi popoli mediterranei usavano per poggiarvi sopra i cibi. Lo testimonia il più importante poeta latino, Virgilio in un celebre episodio dell’Eneide dove l’eroe progenitore di Roma, Enea, per non morire di fame è costretto a mangiare la propria mensa.

Parente stretta del nan indiano, della pita greca, ebraica e araba, della tortilla ispanica e messicana, la margherita e la marinara appartengono dunque a quell’antica famiglia di contenitori che il bisogno trasforma in cibo. Negli scavi di Pompei e in quelli dell’antica Neapolis, la Napoli del V secolo a.C., sono stati trovati dei forni che hanno la forma esatta di quelli che ancora oggi vengono costruiti dai maestri fornai napoletani seguendo una tecnica tradizionale che viene ritenuta indispensabile per ottenere un forno in grado di cuocere la pizza secondo la tecnica napoletana tradizionale.

Nei secoli, il prodotto dell’arte dei pizzaioli si è affermato come cibo planetario e si è integrato con le abitudini alimentari di altre culture. A dimostrazione del fatto che la pizza è un “hard disk” gastronomico compatibile con i più diversi software. Da un punto di vista antropologico questo significa che pur essendo un’invenzione gastronomica di una cultura specifica, in realtà è un cibo che si è saputo aprire ad altre culture e nel contempo ha consentito e continua a consentire ad altri popoli di dialogare idealmente con i Napoletani che l’hanno inventata. In questo senso la pizza è come una partitura musicale che può essere eseguita in tantissimi modi e da chiunque. Ma i pizzaiuoli napoletani la suonano in un modo del tutto particolare che si ispira ad un’antica arte tradizionale. Pur apprezzando tutti gli altri stili culturali. Va infatti sottolineato che, nonostante i Napoletani e gli Italiani siano fieri di avere inventato la pizza non ne rivendicano la proprietà intellettuale, semmai il primato creativo, la primogenitura. E il fatto che sia diventata un cibo planetario è un motivo di fierezza per i maestri pizzaiuoli che, provenienti dai ceti sociali più bassi, hanno fatto dell’arte della pizza uno strumento di mobilità sociale personale e di incontro fra ceti e culture.

Quando nel 1835 Alexandre Dumas visita per la prima volta Napoli rimane entusiasta della pizza. Il grande scrittore francese coglie, infatti, che dietro l’apparente semplicità questo cibo si nasconde uno straordinario saper fare, oltre che una vera e propria arte del vivere insieme. Una risposta democratica e sostenibile al bisogno di sfamarsi. Pochi cibi sono ecocompatibili come la pizza, in grado di soddisfare insieme le esigenze del gusto e quelle del benessere, a costi accessibili a tutti e senza pesare eccessivamente sulle risorse del pianeta.

Un perfetto esempio di gastronomia democratica, di cibo social.

E l’arte della pizza è il risultato di un vero e proprio processo sociale di cui il pizzaiuolo e il consumatore sono parte. Per cui la pizza non è mero prodotto, merce separata dalla dinamica socio–culturale della sua produzione. Ma un alimento al centro di un rituale sociale che è all’origine di una koinè che ha al suo centro il forno e il banco di lavoro del pizzaiuolo. Che, non a caso, nelle pizzerie napoletane tradizionali, non sono nascosti, ma si trovano al centro del locale, come un antico focolare. E il pizzaiolo non lavora dando le spalle agli avventori, ma sta di fronte a loro e intrattiene con le persone che mangiano un rapporto costante, un ininterrotto feed–back comunitario. Fatto di sguardi, commenti, considerazioni, idee. Che concorre alla produzione e alla riproduzione del bene culturale intangibile, adattando questa tradizione antica alle nuove domande, nonché ai cambiamenti di sensibilità e di gusto. Va segnalato in proposito che molti pizzaiuoli napoletani, attenti alle indicazioni dell’OMS in materia di educazione alimentare, cercano di adeguare la preparazione di questo piatto a standard di salubrità crescenti.

In conclusione “l’arte dei pizzaiuoli napoletani” è l’espressione di una cultura materiale e immateriale che unisce. Tanto che a Napoli non si dice “andiamo a mangiare una pizza”, ma “andiamo a farci una pizza insieme”. Che è tutt’altra cosa. Significa che ci si ritrova in pizzeria per assaporare il gusto della convivialità. E che la pizza non è fatta solo dal pizzaiuolo ma è idealmente coprodotta anche dai commensali. Ecco perché l’arte della pizza non si riferisce solo a un prodotto tipico, ma a un vero e proprio processo sociale, a un bene immateriale e alla storia collettiva che vi è dietro. Si tratta insomma del monumento–documento dell’arte umile ma sapiente di quei pizzaiuoli che, di generazione in generazione, hanno fatto circolare un po’ d’Italia nelle vene del mondo.

 

Napoli, 20 marzo 2015

 

Marino Niola è scrittore, giornalista e accademico. Antropologo della contemporaneità, insegna Antropologia dei Simboli, Antropologia delle arti e della performance e Miti e riti della gastronomia contemporanea all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. È editorialista de La Repubblica. Sul Venerdì di Repubblica cura la rubrica Miti d’oggi. Collabora con Le Nouvel Observateur, Il caffè di Locarno, Il Mattino di Napoli. Dal 2008 al 20 giugno 2010 è stato presidente del Teatro Stabile di Napoli. È direttore del Centro di ricerche sociali sulla dieta mediterranea MedEatResearch.

 

(Tratto da #pizzaUnesco orgoglio italiano. Aracne edizioni 2015)