di Pier Luigi Petrillo∗

L’idea di un riconoscimento, a livello internazionale, della pizza napoletana e della sua arte prende forma agli inizi degli anni 2000, per iniziativa dell’allora Ministro dell’Agricoltura Alfonso Pecoraro Scanio in occasione dell’avvio della procedura per il riconoscimento europeo della specialità gastronomica garantita (SGT). Erano altri tempi e l’Unesco ancora non aveva approvato una specifica convenzione internazionale volta a promuovere e salvaguardare il c.d. patrimonio culturale immateriale ovvero quell’insieme di conoscenze, tradizioni, riti, festività, pratiche e tecniche che rappresentano l’identità culturale di una comunità. Convenzione che venne approvata solo nel 2003 — come meglio dirò poi. È per questo motivo che nel 2006 la candidatura venne ripresa dallo stesso Ministro Pecoraro Scanio in qualità di Ministro dell’Ambiente e promossa insieme ad altre candidature (Le Dolomiti, i Campi Flegrei, il Monte Bianco) nell’altra Lista dell’Unesco, quella del patrimonio culturale materiale. Successivamente nel febbraio 2010 in seguito al crescente interesse manifestato esplicitamente al Ministero dell’Agricoltura da alcune associazioni partenopee ed in particolare dal Presidente dell’Associazione dei Pizzaiuoli Napoletani (APN), Sergio Miccù, che riuniscono produttori ed artigiani di tale antico mestiere, la candidatura venne formalizzata e l’allora Ministro Luca Zaia affidò ad una specifica task force — da me coordinata — il compito di redigere il dossier di candidatura.

Da febbraio 2010 a marzo 2011 numerosi furono gli incontri tra la task force del Ministero e l’associazione dei pizzaiuoli in cui emersero chiaramente le funzioni sociali e culturali dell’antica maestria dei pizzaiuoli napoletani. Ad essere oggetto di candidatura, infatti, non è la pizza di per sé ma è quella ritualità e quella tecnica legata alla preparazione, alla lavorazione manuale della pizza e alla sua cottura.

Chiariti i vari punti, il 26 marzo 2011 la candidatura dell’arte dei pizzaiuoli napoletani venne approvata dalla Commissione Nazionale italiana per l’Unesco, presieduta dal professore Giovanni Puglisi, e trasmessa all’Unesco. Qualche mese dopo, tuttavia, l’Unesco comunicò l’impossibilità di esaminare la richiesta italiana per l’insufficienza delle risorse umane ed economiche a disposizione dell’Organizzazione parigina. Tale orientamento verrà confermato successivamente con le modifiche alle Linee Guida Operative della Convenzione dell’Unesco, approvate il 4 giugno 2012, che stabiliscono il limite per la valutazione di una sola candidatura all’anno per ogni Stato parte. In virtù di tale limitazione, la valutazione della candidatura dell’arte dei pizzaiuoli napoletani venne rinviata, dalla Commissione nazionale, sine die.

Perché è così importante questa candidatura e la ripresa del percorso interrotto nel 2012?

Anzitutto per una serie di motivi, per così dire, “patriottistici” o, se vogliamo, “identitari”.

In tutto il mondo l’Italia è famosa per le sue bellezze storiche–architettoniche e per i suoi prodotti agro–alimentari. Un dato numerico evidenzia chiaramente questo primato mondiale: in Italia si conta, infatti, il maggior numero di prodotti a denominazione d’origine protetta, garantita e/o controllata. Basta superare i confini nazionali per scoprire numerose gastronomie e luoghi di ristorazione italian style e non è un caso che, secondo una recente indagine condotta dall’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agro–alimentari, i prodotti alimentari italiani siano i più contraffatti al mondo, con imitazioni che richiamano in etichetta o nel nome la felice immagine del c.d. Bel Paese. Tali prodotti, caratterizzati dal c.d. italian sound perché richiamano in etichetta l’immagine di luoghi italiani o il suono di parole italiane, non riescono, per nostra fortuna, a riprodurre i sapori, le sensazioni organolettiche, le emozioni che possono derivare dal degustare “l’originale”. E questo essenzialmente perché ciascun prodotto alimentare non è soltanto un combinato (ben) disposto di diverse materie prime ma è frutto di una pratica, di un rituale, di metodi di lavorazione tradizionali che si sono tramandati di padre in figlio, rispecchiando l’identità di quel preciso popolo o di quella precisa comunità.

In altri termini, e per fare un esempio emblematico, è possibile (ri)produrre il parmigiano reggiano anche in Asia ma non avrà mai il sapore del parmigiano reggiano prodotto secondo il disciplinare che caratterizza la denominazione d’origine. Ciò per il semplice fatto che chi oggi produce questo alimento lo fa secondo una metodica che appartiene alla terra in cui vive, e secondo ritmi ancestrali che i padri hanno insegnato ai figli.

In questo senso è possibile, se non doveroso, chiedersi, quando troviamo un prodotto sullo scaffale di un supermercato o al mercato in bella esposizione, la sua storia, la sua origine, cosa c’è dietro. Nei tempi frenetici in cui viviamo, sono domande che spesso non ci poniamo e, affamati di qualsiasi cosa, ci facciamo trascinare dalla pubblicità televisiva, acquistando prodotti alimentari industriali che potremmo trovare in qualsiasi parte del mondo.

Ecco, dunque, i due nodi su cui riflettere: da un lato, la dimensione identitaria di un prodotto alimentare, il suo essere non solo alimento ma anche manifestazione di una tradizione e della cultura della comunità che lo produce; dall’altro, l’incessante cavalcata della globalizzazione che, pur arrecando indubbi benefici, tende, se non adeguatamente governata, ad annullare le differenze alimentari e a creare un’unica alimentazione standard con prodotti uguali in tutti il mondo, realizzati su scala industriale per sfamare miliardi di stomaci sempre più affamati, secondo modelli alimentari spesso scollegati alla realtà culturale in cui si impongono.

In questo contesto, la Convenzione Unesco sul patrimonio culturale immateriale, siglata a Parigi nel 2003 e ratificata dall’Italia con legge n. 167 del 27 settembre 2007, rappresenta, al tempo stesso, un’opportunità per affermare la dimensione culturale dei prodotti agro–alimentari tradizionali, ed un argine contro la sparizione di tradizioni legate all’agricoltura e all’alimentazione che rischiano di sopperire nella guerra dell’omologazione sensoriale.

In primo luogo, infatti, con l’approvazione di questa nuova Convenzione, frutto del lavoro di un pool di esperti mondiali tra i quali voglio citare il prof. Tullio Scovazzi, ordinario di Diritto Internazionale all’Università Bicocca di Milano, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di Cultura e Scienze Naturali, ha riconosciuto valore culturale anche a quelle tradizioni, a quei riti, quegli eventi, quelle feste, che esprimono l’identità di una comunità.

Nel testo della Convenzione del 2003, con una definizione volutamente di ampia portata, il concetto di patrimonio culturale immateriale viene definito come quell’insieme di:

«practices, representations, expressions, knowledge, skills — as well as the instruments, objects, artefacts and cultural spaces associated therewith — that communities, groups and, in some cases, individuals recognize as part of their cultural heritage. This intangible cultural heritage, transmitted from generation to generation, is constantly recreated by communities and groups in response to their environment, their interaction with nature and their history, and provides them with a sense of identity and continuity, thus promoting respect for cultural diversity and human creativity».

Il patrimonio immateriale, in base all’elencazione offerta dall’art. 2, par. 2, della Convenzione, è individuabile in 5 settori (tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; le arti dello spettacolo; le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo; l’artigianato tradizionale) che non sono, tuttavia, esaustivi, sia per la difficoltà di assegnare classificazioni precise e schemi predefiniti alla nozione di cultura, ma anche in ragione del carattere intersettoriale di alcune tradizioni orali, come ad esempio nel caso delle pratiche alimentari poiché si integrano con sistemi articolati di relazioni sociali e di significati condivisi collettivamente.

Tale Convenzione ha così imposto un aggiornamento, anche a livello nazionale, del concetto stesso di “cultura” non più legato alla sua dimensione materiale (il monumento, la chiesa, il quadro, la reggia…) ma da ricondurre anche alla sua immaterialità. In questo senso è cultura anche quella particolare tecnica produttiva che assolve ad una specifica funzione sociale per una specifica comunità.

Dalla 4° sessione del Comitato Intergovernativo della Convenzione, svoltosi ad Abu Dhabi nel settembre 2009, sono stati così inseriti in una apposita Lista rappresentativa di elementi espressione del patrimonio culturale di specifiche comunità, numerose tradizioni, riti, pratiche sociali .

Secondo procedure di valutazione articolate e complesse, l’Unesco ha riconosciuto, tramite l’organo di governo della Convenzione del 2003 (il Comitato Intergovernativo, appunto), valore culturale a danze e balli tradizionali (come il tango o il flamenco), a produzioni artigianali come quelle dei tappeti persiani, e, da ultimo, a pratiche alimentari uniche nel suo genere come la Dieta Mediterranea.

Valori che ben si ritrovano nell’arte dei pizzaiuoli napoletani, altissima espressione della cultura e dell’identità del nostro popolo. Proprio partendo da questi dati, la Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco, di cui mi onoro di far parte, a nome di tutto il Governo italiano e proprio alla luce della enorme mobilitazione popolare promossa dalla petizione mondiale #pizzaUnesco, ha deliberato, il 26 marzo 2015, di trasmettere ufficialmente all’Unesco il dossier di candidatura “l’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani” quale unica proposta 100% italiana per il ciclo 2015–2016.

Come abbiamo evidenziato nel dossier, “l’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani” ha svolto negli anni e svolge tuttora alcune importanti funzioni culturali e sociali: il mestiere del pizzaiuolo ha dato un’importante possibilità di riscatto sociale a tanti giovani che, provenienti da contesti difficili, si sono garantiti così un futuro lavorativo anche di ampio rispetto nella società. L’“arte bianca” dai vecchi maestri pizzaioli si apprende durante il faticoso lavoro di affiancamento del ragazzo di bottega. Di questa tradizione è intrisa l’intera comunità: “l’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani” trasmette un’atmosfera rilassata e gioviale grazie anche al banco di lavoro sempre ben in vista dove il pizzaiuolo si esibisce e spesso intrattiene bambini e clienti, in un continuo scambio intergenerazionale.

Il riconoscimento di tale arte permette una valorizzazione delle conoscenze tradizionali che hanno costituito le sue origini e che spesso sono minacciate dalla globalizzazione. Inoltre, l’utilizzo dei prodotti del territorio e di legni specifici e certificati nella preparazione del forno fanno di questa conoscenza tradizionale un elemento che contribuisce a rendere più sostenibile il rapporto tra uomo e natura, nel rispetto delle diversità sia culturali sia naturali.

Il dossier di candidatura è stato consegnato il 31 marzo 2015 al Segretariato della Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, avviando in tal modo l’iter internazionale che vedrà l’Organo di Valutazione, formato da 6 esperti nominati dal Comitato Intergovernativo della Convenzione (di cui l’Italia non è membro) e da 6 rappresentanti di Organizzazioni Non Governative, analizzare la documentazione trasmessa. Tale organo avrà il compito di elaborare su basi tecniche la proposta di decisione che verrà posta alla valutazione politica dell’organo di governo della Convenzione.

 

Il processo, così avviato, si concluderà tra dicembre 2016 e dicembre 2017. È importante ora, con la delicatezza propria delle arti diplomatiche, proseguire nel lavoro di mobilitazione popolare per far capire all’Unesco e al mondo che “l’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani” non è mero folclore ma anima, cuore, cervello di una intera comunità.

 

∗Pier Luigi Petrillo è professore associato di Diritto comparato all’Università Unitelma Sapienza di Roma. Consigliere giuridico dei ministri dell’Agricoltura e dell’Ambiente, ha coordinato, in queste vesti, le candidature delle Dolomiti, della Dieta Mediterranea, dello Zibibbo di Pantelleria e delle Langhe–Roero e Monferrato nelle liste dell’Unesco. È l’autore del dossier di candidatura dell’arte dei pizzaiuoli napoletani nella lista dell’Unesco. Da agosto 2015 è capo dell’Ufficio Legislativo della Regione Campania.